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Il danno erariale cagionato dal Revisore dei conti di un ente pubblico

Giornalista. Dottore Commercialista - Revisore legale dei conti

Danno Erariale

La materia oggetto di questa riflessione è particolarmente complessa e problematica, presupponendo lo studio in genere della figura del revisore dei conti di un ente pubblico e della sua qualificazione giuridica; dei presupposti e dei profili della sua responsabilità e così via, tanto che appare opportuna una parcellizzazione degli argomenti al fine di non appesantire la trattazione.

Si affronterà pertanto in questa sede solo il profilo del danno erariale eventualmente cagionato dal revisore.

Il danno in genere, come insegna la dottrina civilistica, può essere diretto come perdita secca di un’utilità economica o di un bene oppure indiretto cioè come nocumento cagionato dal dipendente -pubblico o privato – a terzi che tuttavia il datore di lavoro o il committente è tenuto a risarcire.

In entrambi i casi occorre un nesso di causalità cioè un rapporto di assoluta ed immediata dipendenza tra la condotta posta in essere dal dipendente e quindi, nel nostro caso, dal revisore e il danno arrecato.

A sua volta la condotta fonte di responsabilità deve essere connotata da uno specifico elemento soggettivo che viene unanimemente individuato nella colpa grave cioè in quel particolare atteggiamento psicologico secondo il quale l’agente, imprudente, negligente o imperito oppure inosservante di leggi, ordini o regolamenti, quantunque si fosse prefigurato la possibilità o la probabilità dell’evento dannoso (colpa cosciente), ha comunque agito senza la volontà di cagionarlo anzi spesso con la convinzione, poi rivelatasi errata, di poterlo evitare.

E la differenza con la colpa lieve consiste nella gravità dell’imprudenza, imperizia o negligenza cioè nell’ignoranza di basilari ed elementari regole del “mestiere” o del modus operandi richiesto ad un professionista di quel settore e non ad un semplice cittadino ovvero nella violazione di prescrizioni normative, di tipo legislativo o regolamentare, di diffusa conoscenza o di agevole conoscibilità da parte di quel genere di professionisti.

Molto variegata è la casistica delle fattispecie idonee ad integrare il danno erariale nella condotta del revisore.

A mero titolo di esempio si possono indicare i riconoscimenti di debiti fuori bilancio, purché attestati da provvedimenti giudiziari definitivi o da atti stragiudiziari come transazioni sottoscritte al fine di prevenire o chiudere liti; le coperture di disavanzi o l’ acquisizione di beni o servizi senza l’osservanza delle disposizioni sull’impegno di spesa.

Altre fattispecie potenzialmente produttive di danno erariale si possono ravvisare nella predisposizione di variazioni di bilancio, nella violazione delle regole di legge o di prudenza negli indebitamenti, nella mancata cura dell’inventario dei beni aziendali , nella cancellazione di residui attivi e nel dissesto finanziario.

Sono responsabili del danno erariale anche coloro che sono obbligati alla denuncia alla Corte dei Conti. I soggetti obbligati sono il Segretario Generale, il Direttore Generale, il Capo Servizio, il Responsabile del Procedimento, i Revisori.

Gli organi di Revisione, se nel corso dell’espletamento dell’esercizio della propria attività rilevino un fatto illecito che può causare un danno, sono obbligati a dare comunicazione alla Procura territorialmente competente.

La denuncia del danno è rappresentata da un documento che contenga le indicazioni prescritte dalla legge, altrimenti la segnalazione non è idonea a realizzare nella sostanza l’assolvimento dell’obbligo stabilito dalla normativa.

La denuncia, quindi, deve avere un contenuto ben preciso ossia:

– indicazione del fatto con specificazione dettagliata delle violazioni;

– se si è a conoscenza del danno, occorre verificare l’ammontare dello stesso oppure i dati in base ai quali si conosca la sua natura seppure non quantificabile.

Il danno erariale comporta il diritto dell’ente ad essere risarcito e il corrispondente obbligo del revisore di ristorarlo del danno, ma tale diritto si prescrive in cinque anni, decorrenti dalla data in cui si è verificato l’evento dannoso o dalla data della sua scoperta qualora quest’ultima sia stata dolosamente resa più difficile con manovre finalizzate al suo occultamento.

Il dies a quo del termine di prescrizione non può tenere conto del momento realizzativo della condotta bensì deve essere rapportato al momento di produzione del danno o, come detto, della sua scoperta o quanto meno della sua concreta conoscibilità da parte dell’organo di controllo.

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