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Il concetto di risanamento nella composizione negoziata

Dottore Commercialista
Revisore Legale dei conti
Docente e formatore Crisi d’impresa

L’istituto della composizione negoziata trova il suo fondamento nella disposizione recata all’art. 12 del D.Lgs. 14/2019 a mente del quale l’imprenditore commerciale e agricolo, al fine di garantire la soluzione della sua crisi, può chiedere la nomina di un esperto alla duplice condizione che l’impresa si trovi in condizioni di squilibrio patrimoniale o economico-finanziario che ne rendono probabile la crisi o l’insolvenza e che risulti ragionevolmente perseguibile il risanamento dell’impresa.

La declinazione del secondo requisito, ovvero quello del “risanamento”, impone un’importante riflessione per comprendere se esso, in un contesto di norma caratterizzata da diverse lacune e, purtroppo, ancora toppo giovane, debba necessariamente essere riferito alla sola “continuità aziendale” o se possa essere utilizzato anche per accogliere ipotesi di riassetto solo finanziario, cui consegua la cessazione dell’azienda.

Se si guarda al contesto in cui si è generata la composizione negoziata non vi è dubbio che la finalità principale della norma sia quella di garantire il presupposto del “going concern”, con la conseguenza di interpretare il “risanamento” come modalità di soluzione della crisi o dell’insolvenza reversibile capace di ricollocare l’impresa sul mercato. Di ciò vi è evidente testimonianza, oltre che nelle indicazioni contenute nel Decreto Dirigenziale, anche nella predilezione degli “exit” di cui all’art. 23 comma 1 CCII.

Tuttavia, guardando la disposizione nel suo complesso non può negarsi che, al di là delle soluzioni che il legislatore pare preferire (tutte orientate alla continuità, ovvero gli accordi di cui all’art. 23 comma 1 lettera a) b) e c), e comma 2 lettera a) e b)),  la norma contempla anche una soluzione meramente liquidatoria declinata al comma 2 del medesimo art. 23, e precisamente alle lettere c) e d), id est il “concordato semplificato” e “uno degli strumenti di regolazione della crisi e dell’insolvenza”, tra i quali si annovera anche il concordato preventivo a carattere liquidatorio.

Siffatta interpretazione trova un importante conforto in dottrina. Il recupero della continuità aziendale può, infatti, essere uno degli obiettivi e, al tempo stesso, un mezzo per superare lo stato di insolvenza, ma l’uscita da una tale condizione potrebbe intervenire anche attraverso una liquidazione controllata o un trasferimento dell’azienda a terzi. In altri termini, se è vero che la composizione negoziata è stata costruita essenzialmente per offrire un percorso agile verso il superamento degli squilibri, gravi o meno gravi, nei quali è caduta l’impresa, non è men vero che l’accordo possa comportare l’adozione di un piano condiviso per la liquidazione del patrimonio, con l’ovvio abbandono della continuità aziendale. D’altronde, anche le indicazioni che promanano da Infocamere, di cui l’ultimo report riassume i dati aggiornati al 01/02/2024, consentono di interpretare tra i cd “esiti favorevoli”, e, quindi, tra le soluzioni definite di “risanamento”, le “altre procedure di regolazione della crisi”, tra le quali certamente rientra il concordato preventivo meramente liquidatorio.

Di diverso avviso sembrerebbe, prima facie, essere la giurisprudenza di merito (Tribunale di Bergamo 15 marzo 2022) che interpreta in maniera più restrittiva la norma ritenendo che, qualora l’opzione liquidatoria costituisca l’unico mezzo attraverso il quale addivenire al soddisfacimento dei creditori, si configura l’impossibilità per il Tribunale di concedere la conferma delle misure protettive, non sussistendo la ragionevole possibilità di perseguire l’obiettivo del risanamento dell’impresa e la prosecuzione della sua attività. Ciò in quanto la prospettiva meramente liquidatoria dell’impresa non è prevista quale possibile esito positivo della procedura di negoziazione assistita, bensì quale risultato del fallimento delle trattative tra debitore e creditori agevolate dall’esperto.

Più in dettaglio, nel caso sottoposto all’attenzione del Tribunale, che valorizza apertamente la condizione “essenziale” della continuità aziendale, “il ricorso all’opzione liquidatoria, lungi dal conseguire allo svolgimento delle trattative secondo correttezza e buona fede ed all’accertata impraticabilità delle soluzioni individuate dal legislatore al fine di superare lo stato di squilibrio patrimoniale o economico finanziario dell’impresa, è dalla stessa ab origine prospettato quale unico mezzo per addivenire al soddisfacimento dei suoi creditori”, sicché non sussisterebbe “alcuna ragionevole possibilità di perseguire l’obiettivo del risanamento dell’impresa e la prosecuzione della sua attività, al cui perseguimento dette misure possano ritenersi strumentali”.

A ben vedere, però, il passo conclusivo sembrerebbe inibire l’avvio del percorso della composizione negoziata e l’applicazione della relativa disciplina, alle sole ipotesi di intervenuta cessazione irreversibile della continuità ab initio, con la conseguenza che, laddove tale preclusione non sia inizialmente presente, ben potrà il percorso condurre ad ipotesi di risanamento con prospettiva liquidatoria, anche indiretta, dell’azienda.

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