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Indagini sulle comunicazioni e diritto alla privacy: nuovi limiti dalla Corte di giustizia Ue e primi orientamenti
L’ordinamento nazionale vincola l’intercettazione di comunicazioni, tanto ai presupposti dettati dal codice di procedura penale (artt. 266 c.p.p., novellato dal D.Lgs. n. 216 del 2017, e 266-bis) e dai decreti attuativi, quanto ai provvedimenti del Garante tesi ad assicurarne la conformità ai fini privacy, trattandosi di attività invasive della sfera individuale).
La Corte di giustizia dell’Ue (CGUE) nell’esprimersi lo scorso 2 marzo (H.K., C-746/18) su tre domande pregiudiziali formulate dalla Riigikobus (Corte Suprema) dell’Estonia – ha tracciato una significativa linea di demarcazione nel rapporto tra il trattamento investigativo dei dati e la tutela della vita privata nel settore delle comunicazioni elettroniche, non priva di riverberi, anche tra loro contrastanti, negli ordinamenti degli Stati membri.
A seguito della condanna penale di una cittadina Estone fondata anche su risultanze di indagine tratte da comunicazioni elettroniche, la Corte nazionale rinviava alla CGUE l’accertamento, in primis, dell’ammissibilità probatoria degli atti basati sui dati di traffico elettronico o telefonico, in ragione delle modalità “invasive” di acquisizione dei tabulati prevista dalla normativa penale nazionale.
Il Giudice rimettente chiedeva poi alla CGUE se l’accesso degli investigatori alle informazioni riferibili ad apparato, data, ora, durata e tipo di comunicazione, nonché ai dati di geolocalizzazione dell’utente, costituisca un’ingerenza nei diritti fondamentali di cui alla Carta di Nizza, tale da dover assoggettare il corrispondente potere di indagine a precise limitazioni, ammettendolo per le sole forme gravi di criminalità.
Infine, doveva stabilirsi se, rispetto a questa ingerenza, il pubblico ministero possieda effettivi requisiti di indipendenza e terzietà a garanzia dei diritti fondamentali, poiché lo stesso rappresenta la pubblica accusa.
L’articolato responso reso dalla CGUE ha ravvisato la non conformità al diritto dell’Unione (Direttiva 2002/58 CE) di norma nazionali che prevedano senza condizioni e garanzie rafforzate, il generalizzato obbligo di conservazione (c.d. data retention) dei dati di traffico telefonico/elettronico degli utenti, pur per un periodo limitato.
In analogia con l’art. 132 del D. Lgs n. 196 del 2003 vigente nel nostro ordinamento, che obbliga i fornitori di servizi di rete e telefonia a conservare i dati di traffico rispettivamente per 12 e 24 mesi, anche la normativa estone impone ai provider di archiviare per un anno dalla data di comunicazione, tutti i tabulati del traffico, conferendo al PM e agli uffici di polizia prerogative simili a quelle italiane, in termini di raccolta di questi dati a fronte di ogni ipotesi di reato.
Il quesito sul ruolo del PM è stato risolto dalla CGUE, presentato dal giudice rimettente estone, nel senso che l’esigenza di superiori garanzie per gli interessati impedisce, come finora verificatosi anche in Italia, di attribuire direttamente alla pubblica accusa la competenza ad autorizzare, con decreto motivato, l’accesso ai dati del traffico, dovendosi invece rimettere a un soggetto terzo ed indipendente, il preventivo apprezzamento di necessità liceità e proporzionalità della richiesta, sovente presentata al PM dagli uffici di polizia.
Nell’ordinamento italiano il PM si discosta da quello estone in quanto “organo dotato di piene e totali garanzie di indipendenza e autonomia” e autorità posta “al riparo di indebite interferenze di soggetti pubblici, portatori di interessi di parte”.
Il collegio di Rieti, rileva come un’applicazione diretta dell’orientamento delle CGUE possa concretizzare sia il rischio di indagini penali, sia un ostacolo al contrasto delle forme gravi di criminalità e alla prevenzione di gravi minacce alla sicurezza pubblica, tanto più che tali interessi contrapposti sono visti dalla stessa CGUE come condizioni legittimanti l’ingerenza nella privacy del singolo.
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