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La diffamazione aggravata nell’era dei social

Commercialista - Revisore legale dei Conti
Giornalista pubblicista
Gestore della Crisi da sovraindebitamento
Consulente Bancario
E-mail: mariaantonellapera@gmail.com

DIFFAMAZIONE

L’avvento dei social network ha rivoluzionato la portata del reato di diffamazione (art. 595 del C.P.).

Come spesso accade in questo ambito la Giurisprudenza ha dovuto inseguire le novità prodotte dal tempo provando (riuscendovi) a adattare gli strumenti giuridici a disposizione.

E ciò che ha fatto la Corte di Cassazione che, per intervenire su simili condotte illecite è ricorsa al terzo comma dell’art. 595 c.p., che prevede e sanziona la cosiddetta “diffamazione aggravata”, ovvero quella perpetrata “attraverso mezzi di pubblicità”.

Il social network è probabilmente oggi uno dei principali strumenti per rendere pubbliche notizie pensieri, purtroppo anche in contenuti diffamatori.

La Corte di Cassazione ritiene non più determinante l’individuazione IP ai fini della condanna.

Il ricorrente utilizzo dei social network e dei blog telematici sempre più spesso riporta casi di diverbi, se non veri, e propri litigi tra gli utenti.

Accade, specie in periodi particolarmente intensi, come sicuramente possono essere definiti in questi ultimi anni, tra pandemia, crisi economiche e, non ultimo, la recente campagna elettorale italiana, che sulle pagine virtuali dei canali social si imbatta in conversazioni che, partendo da opinioni discordanti anche dopo poche battute, degenera in veri e propri attacchi diffamatori tra persone, seppure in un ambiente virtuale.

Non è una novità che il web si presti in modo particolare ed efficace alla diffusione di tale materiale diffamatorio, si potrebbe ritenere che internet abbia oggettivamente amplificato certi comportamenti permettendo una diffusione veloce, spesso anche su persone più giovani, tenendo conto della facilità e della semplicità di utilizzo e di nascondere l’aggressore.

È doveroso premettere che l’impianto normativo, che sanziona tale condotta illecita, rimanda direttamente all’articolo 595 comma 1 del codice penale che, per l’appunto, la definisce come una “offesa all’altrui reputazione comunicando con più persone”.

Tale reato sussiste nella ipotesi che un soggetto, consapevolmente, offenda la reputazione altrui con più persone.

In sostanza, ciò avviene quando si scredita l’onore di una persona non presente davanti a più soggetti.

Vi sono presupposti specifici per concretizzare la diffamazione:

  • assenza dell’offeso quando si compie la condotta diffamatoria;
  • una oggettiva offesa alla sua reputazione, quale lesione delle qualità personali, sociali, professionali o anche morali;
  • presenza di almeno due individui in grado di reperire la condotta diffamatoria;

Tali elementi devono essere tutti contestualmente presenti per poter parlare di diffamazione. Se ne manca almeno uno solo, infatti siamo fuori dalla portata dell’art. 595 c.p.

C’è da dire, che a margine di una crescente manifestazione di condotte diffamatorie tramite internet, ad oggi non si è ancora agito nello specifico articolo del codice penale per integrare, in modo esplicito, tale peculiare condotta illecita.

È stata invece proprio la Corte di Cassazione ad intervenire per ricondurre, in modo definitivo, la diffamazione a mezzo social network nell’ambito applicativo del terzo comma dell’articolo 595 c.p.

Si è quindi optato per un’azione giurisprudenziale piuttosto che legislativa.

Interessante è l’analisi di una sentenza del 2012 del Tribunale di Livorno, con la quale veniva disposto che si è in presenza del reato di diffamazione aggravata anche nel caso di pubblicazione di un post offensivo sulla bacheca Facebook di un altro utente.

Il Giudice aveva rilevato che “ è nota agli utenti di Facebook l’eventualità che altri possano in qualche modo individuare e riconoscere le tracce e le informazioni lasciate in un determinato momento sul sito, anche a prescindere dal loro consenso”.

Ciò comporta che “l’uso di espressioni di valenza denigratoria e lesiva del profilo professionale della parte civile integra sicuramente gli estremi della diffamazione alla luce del carattere pubblico del contesto in cui quelle espressioni sono manifestate, della sua conoscenza da parte di più persone e della possibile sua incontrollata diffusione tra i partecipanti alla rete del social network”.

Da ciò si desume che, un utente generico di una piattaforma social, deve necessariamente essere consapevole che qualsiasi messaggio venga “postato”, è potenzialmente diretto di un numero imprecisato di persone.

Trattasi di ” rischio in una certa misura indubbiamente accettata e consapevolmente vissuto” da parte degli utenti.

Non è rilevante individuare l’IP (acronimo di Internet Protocol Address) per rintracciare l’autore del reato e, quindi, procedere con una condanna per diffamazione aggravata, ma è più importante rifarsi a criteri logici e massime di esperienza condivise (Corte Cass. n. 4239/2022).

Ha fatto scuola, un caso del 2018, in cui un utente di Facebook, era stato accusato, e, poi condannato, per aver diffamato, attraverso un messaggio sul suo profilo, un amministratore locale.

Il difensore dell’utente aveva impugnato la sentenza di condanna di secondo grado, in quanto a suo giudizio, era stato ritenuto valido un impianto accusatorio che, trascendendo dalla identificazione dell’indirizzo IP, si era invece limitato alla analisi esclusiva di due indizi: la natura dell’argomento della discussione (ritenuto di interesse del ricorrente) ed il profilo Facebook dell’utente, indicando nome e cognome del soggetto che è stato poi condannato.

Con la Sentenza n. 5358/2018, la Corte di Cassazione ha ritenuto che il giudice di secondo grado  non avesse tenuto conto delle argomentazioni difensive secondo le quali l’accertamento dell’IP di provenienza del post poteva essere utile – se non necessario – per poter verificare il titolare della linea telefonica associata.

Sul punto, però, la sentenza della Corte non ha stabilito che l’IP sia un elemento imprescindibile ai fini di una condanna per diffamazione aggravata, ma ha giudicato la motivazione insufficiente in quanto aveva ricondotto l’account a una persona senza valutare ulteriori e adeguati indizi, compreso l’IP, oltre al nome e cognome, e all’argomento di discussione che ha generato gli insulti.

Pochi anni più tardi e precisamente nel 2021, con la sentenza 24212/2021, la stessa Corte di Cassazione ha riconfermato questo impianto. In un contesto distinto, ma nella sostanza simile a quello descritto innanzi.

Con altra Sentenza del 2022, la n.4239/20252, la Suprema Corte di Cassazione ha ribadito nuovamente l’orientamento precedente, evidenziando che, la verifica dell’indirizzo IP, non è imprescindibile ai fini della condanna di diffamazione via web.

Occorre quindi  individuare l’autore del reato sulla base di criteri di logici, ed elementi acquisiti con le pratiche comuni.

Maria Antonella Pera
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