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La pandemia di COVID-19. Si può fare di più?

Giornalista. Docente specializzata in analisi del comportamento per il recupero degli studenti con disabilità intellettiva.
Tutor specializzato per il supporto di ragazzi con disturbi specifici dell’apprendimento.

Pandemia Covid 19

“La più grande e più grave pandemia dell’ultimo secolo”: a sancirlo con queste parole è l’ultimo rapporto dell’Ocse, da poco pubblicato, di Health at a Glance offrendo un panorama esaustivo della realtà dei servizi sanitari.

L’epidemia da COVID-19 si è diffusa al punto tale da diventare la pandemia più grave dell’ultimo secolo: da tale shock ha avuto origine una grave crisi sanitaria che, a sua volta, ha generato una crisi economica le cui conseguenze pesano e peseranno sulle persone e sull’intera collettività.

Il SARS-COV-2 ha evidenziato le difficoltà insite nei nostri sistemi sanitari mettendo sotto gli occhi di tutti che sebbene si parli molto di dover considerare la spesa sanitaria un investimento anziché un costo, nella realtà quotidiana avviene tutt’altro.  Inoltre, è divenuto ormai chiaro che occorre inserire nella check-list delle dimensioni chiave per valutare le performance dei sistemi sanitari la resilienza, ovvero la capacità di resistere adattandosi alle circostanze, alla stessa stregua dell’accessibilità, della qualità delle cure e dell’efficienza.

Un altro aspetto fondamentale evidenziato dalla pandemia è stata la carenza di operatori sanitari e la necessità di mobilitare le risorse umane per affrontare la crisi sanitaria: molti Paesi, tra cui l’Italia, hanno cercato di mobilitare personale supplementare richiamando operatori sanitari in pensione, reclutando studenti in medicina, infermieri e programmi di studio in campo sanitario.

Nel bel mezzo della tempesta sanitaria sono tante le storie di vita, familiari e lavorative emerse: storie di eccellenze e fallimenti, che hanno avuto come protagonisti uomini e donne in tuta bianca. Uno sforzo titanico il loro, fatto spesso in affanno, con pochi mezzi e turni infiniti: specialmente al Sud. Se, infatti, la pandemia ha colpito duro in tutta Italia, il Sud ha scontato, in modo tangibile, ritardi e disorganizzazione, partiti da lontano.

Tutti erano impreparati. La politica, le amministrazioni, i medici, gli infermieri, i pazienti.

Ciò nonostante nelle regioni del Sud si è risposto bene: i piccoli ospedali convertiti in centri per la cura dei pazienti meno gravi o in dimissione; le terapie intensive ingrandite con posti dedicati; reparti aperti a tempo record come nel caso della Basilicata dove gli ospedali da campo dono del Qatar e mai attrezzati sono stati convertiti in Hub vaccinali.

I problemi da affrontare sono tanti ed urgenti, tra i tanti possiamo citare la capillarità della cura, il raccordo tra territorio e ospedale, l’assistenza domiciliare, etc. Spesso si è cercato di sopperire all’inadeguatezza del sistema sanitario ricorrendo agli aiuti esterni della Protezione Civile e dei tanti Volontari che quotidianamente offrono il proprio tempo per essere d’aiuto al prossimo.

Di questa straordinaria vicenda umana rimarranno tanti insegnamenti sia umani che scientifici, ma resta anche la profonda e amara consapevolezza di una sanità meridionale che, pur trovando sempre un modo per uscirne, rimane ancora indietro, per i nodi economici, che si riflettono su organizzazione e strutture, con carenza numerica di personale e tecnologie esistenti, ma sempre da adeguare, con l’affanno con cui si mette mano alla ricerca, vera carta vincente nell’avvenire. È triste pensare che al principio del 2022 i posti letto nel Mezzogiorno non raggiungano lo standard nazionale, né tantomeno quello europeo; che le strutture siano in gran parte sottorganico. La conseguenza è l’emigrazione sanitaria.

Ogni anno almeno un milione di pazienti va a curarsi da Roma in su, spendendo in media 4,5 mld l’anno. Il paradosso – secondo le Associazioni dei Medici – è che le regioni più povere finanziano le più ricche ma è anche vero che occorre seriamente provvedere alla costruzione di una vera rete di servizi sanitari di qualità e a nuove assunzioni dando attuazione magari ai Programmi Europei e ad un finanziamento aggiuntivo, per investimenti pubblici e privati, in partenariato tra Regioni limitrofe, anche nei settori dell’informatizzazione e delle biotecnologie.

In conclusione diremo che guardare al futuro è – nell’ambito sanitario – l’imperativo di questi giorni: il mondo sanitario, e non,  guarda con fiducia al programma Next Generation Euche con i fondi alle università, facilitazioni nell’ingresso del lavoro, transizione ecologica, sostegno ai ristoratori, potrebbe finalmente colmare il divario con il Nord.

Roberta Fameli
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