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Vietare ai figli il cognome della madre è incostituzionale
La parità di genere è un diritto umano fondamentale ma anche una condizione indispensabile per un mondo sostenibile. Garantire alle donne parità e rappresentanza nei processi decisionali, politici ed economici serve a promuovere economie sostenibili di cui può beneficiare le società e l’umanità intera.
La strategia dell’UE l’Agenda 2030 fissa al quinto posto tra i propri obiettivi per lo “sviluppo sostenibile” il raggiungimento effettivo della parità di genere affinché tutti i cittadini, donne e uomini, abbiano pari opportunità favorendo al tempo stesso l’obiettivo dello “sviluppo sostenibile” invertendo il rapporto di sfruttamento sulla natura, che ha provocato i cambiamenti climatici.
I tre pilastri, intorno a cui ruota la strategia europea per il raggiungimento della parità di genere, si possono riassumere nella lotta alla violenza sulle donne, nella possibilità di raggiungere posizioni prestigiose e nell’adozione della “prospettiva di genere” per tutti i provvedimenti normativi.
Negli Stati Uniti esiste un’espressione particolare per indicare gli ostacoli insormontabili che impediscono alle donne di avanzare nella società è quella di “soffitto di cristallo” adoperata per la prima volta nel 1984 da Gay Bryant, direttrice della rivista Working Woman.
L’immagine di una barriera trasparente è molto utile per aiutarci a capire che, nonostante non ci siano opposizioni lampanti e conclamate, in realtà la discriminazione di genere esiste e ha numerose conseguenze tra cui licenziamenti delle neomamme, la differenza stipendiali, o semplicemente pensare che certi tipi di lavoro non siano adatti alle donne.
Gli esempi di discriminazione di genere sono tanti, uno per esempio, è il non poter imporre il proprio cognome ai propri figli. L’imposizione del cognome non solo è rilevante ma è addirittura alla base della diseguaglianza di genere.
Basti pensare per esempio che riferendosi ai professionisti o scienziati maschi, è più probabile che si utilizzi solo il cognome (Darwin, Einstein), mentre è uso comune riferirsi alle donne usando sia nome che cognome (Rita Levi-Montalcini, etc.). La prassi rivela che le persone alle quali ci riferiamo, usando solo il cognome, sono considerate più importanti e meritevoli di riconoscimenti. Questi modi di parlare contribuiscono a conservare il cosiddetto soffitto di cristallo, di cui si parlava in precedenza, in quanto alimenta la diseguaglianza tra donne e uomini.
L’attuale sistema normativo vigente in Italia per attribuire il cognome paterno ai figli, si basa sul Codice civile e, in particolare, sull’articolo 6 “ogni persona ha diritto al nome che le è per legge attribuito” e sull’articolo 262 “se il riconoscimento è stato effettuato contemporaneamente da entrambi i genitori il figlio assume il cognome del padre”. Tradizione vuole che all’attribuzione del cognome corrisponda il riconoscimento formale della paternità.
Negli ultimi decenni questa consuetudine giuridica è più volte finita sotto la lente dei giudici in quanto, il riconoscimento della paternità, non implica necessariamente l’attribuzione del cognome paterno. L’iter istituzionale, che ci ha condotti al recente pronunciamento della Corte costituzionale, affonda le sue radici nella sentenza n. 286 del 2016 con la quale venne stabilito che la diversità di trattamento dei coniugi, nell’attribuzione del cognome ai figli, non è compatibile con il principio di uguaglianza e con il principio della pari dignità morale e giuridica, sanciti dalla Costituzione.
Venne dunque dichiarata l’illegittimità costituzionale delle norme che stabilivano l’imposizione del cognome paterno in maniera automatica.
In seguito a tale sentenza, per esempio, la Direzione centrale per i Servizi demografici stabilì l’obbligo per l’ufficiale di stato civile di “accogliere la richiesta dei genitori che, di comune accordo, intendano attribuire il doppio cognome, paterno e materno, al momento della nascita o al momento dell’adozione”.
La battaglia per la parità di genere, nell’attribuzione del cognome ai figli, ebbe inizio il 26 aprile 1999 quando i coniugi Alessandra Cusan e Luigi Fazzo, dopo aver ricevuto il rifiuto di iscrivere la loro bambina nei registri dello Stato Civile con il cognome materno, fecero ricorso al Tribunale di Milano e successivamente alla Corte di Appello di Milano. Entrambi respinsero la richiesta di “sostituzione del patronimico”.
Fu così che la coppia decise di portare il caso in Cassazione, e in seguito alla Corte europea dei diritti umani che nel 2014 condannò l’Italia stabilendo che “l’attribuzione automatica del cognome del padre rappresentava una chiara discriminazione basata sul sesso, in particolare dell’articolo 14 e dell’articolo 8 della Convenzione europea sui diritti umani”.
Affermò che in Italia l’attribuzione del cognome paterno era un “retaggio di una concezione patriarcale della famiglia la quale affonda le proprie radici nel diritto di famiglia romanistico, e di una tramontata potestà maritale, non più coerente con i principi dell’ordinamento e con il valore costituzionale dell’uguaglianza tra uomo e donna”.
Dal punto di vista legislativo le lotte per riscrivere le regole, della nostra carta d’identità, iniziarono nel 1979 con la socialista Maria Magnani Noya che per prima propose una legge sulla scelta del cognome ai figli.
Nel 1989 le fece eco Laura Cima dei Verdi: da allora i disegni di legge presentati sono stati molti ma l’unico che, pur tra mille difficoltà, arrivò in Senato fu quello del governo Letta nel 2014.
Nel 2016 arrivò la storica decisione della Consulta. Fu sentenziato che “obbligare i genitori a dare ai figli il solo cognome del padre, e vietare invece quello della madre, è incostituzionale perché viola l’uguaglianza tra uomo e donna”. Bisognava, pertanto, riformare gli articoli del Codice Civile che regolavano l’assegnazione del cognome ai figli.
L’ultima pronuncia, in ordine di tempo risale al 2021. Grazie a tale sentenza il divario di genere tra uomo e donna si assottiglia un altro po’ spianando la strada, dopo decenni di attesa e sentenze occasionali, al 27 aprile 2022 quando la Corte costituzionale ha dismesso definitivamente l’articolo 262 del Codice civile, definendolo il simbolo anacronistico della una società patriarcale.
Ogni donna potrà finalmente trasmettere il proprio cognome ai figli ponendo fine alla ingiusta violazione del principio di uguaglianza morale e giuridica dei coniugi. “Nel solco del principio di eguaglianza e nell’interesse del figlio, entrambi i genitori devono poter condividere la scelta sul suo cognome, che costituisce elemento fondamentale dell’identità personale”.
Con le nuove norme la scelta del cognome materno o paterno, o di entrambi, sarà libera con un ordine stabilito dai genitori. Nell’ipotesi di conflitto tra i genitori, la via di un possibile compromesso può essere quella di seguire l’ordine alfabetico.
Quello che è certo è che sarà passato un colpo di spugna sull’attuale automatismo, e un altro passo è stato compiuto sulla lunga strada della parità.
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